Sono in
auto, sto percorrendo i circa dieci chilometri che mi separano dalla scuola
media in cui insegno.
La strada è
il corridoio grigio tra campi di grano, alberi da frutta, querce, cipressi,
qualche mucca, un gregge di pecore con relativo pastore disteso su un muretto a
pancia sotto, con lo smartphone che gli lampeggia contro il viso. E’ proprio vero: non ci sono più i pastorelli
di una volta! Amo
questo pezzo di strada, ogni giorno; il mio amore per luoghi e persone non ha
bisogno di novità: una volta entrata in sintonia, amo e basta, per sempre. Mi
sento carica, c’è il sole che enfatizza i colori, come soltanto questa
meraviglia spalmata sul cielo sa fare, creatura puntualmente generosa;
dimentico che sto andando al lavoro, porgo il viso al calore e arriva un
ricordo … mia madre, all’improvviso, da quell’altro mondo. Rivivo
le innumerevoli telefonate con l’auricolare fatte e ricevute, proprio su questa
strada, dove le raccontavo di questo sole, sempre lui, degli alberi, dell’erba
verde lucida e turgida, del profumo dei fiori, dell’assembramento degli iris
viola sul ciglio della strada e di una distesa di papaveri rossi, adesso
scomparsa.
Lei mi descriveva il traffico di Napoli, la confusione, il timore che
aveva di uscire nel caos, qualche piccolo acciacco.
Il nostro scambio d’amore mattutino dava senso alle mie/sue giornate.
Dopo due anni e tre mesi circa dal trapasso, a volte, mi dimentico di mamma,
anche se lei è sottintesa, non devo pensarla per sapere che c’è, è intrisa
nell’acqua delle mie cellule ma, di colpo, questo sole, evidenzia il vuoto dell’assenza
del suo corpo.
E’
un vuoto oggettivo, non triste, in cui sprofonda una parte di me, che cerca la
parte fisica di mamma e non la trova. Così
mi sento persa. Sto
cercando nel posto sbagliato, non la troverò in questo mondo, non più ed è a
questo punto che devo frenare per evitare, dietro una curva, una gazza
bianco-nera che ha planato sull’asfalto, proprio davanti all’auto; svolazza e si posa su un albero, ci guardiamo ed io mi rassereno. Mia madre alloggia nel mio cuore eppure svolazza, va e viene, c’è e
non c’è, così le parlo, mi sento ascoltata, ancora una volta le telefono ma
senza cellulare, le racconto del sole che lei è. .
“Mamma ti ringrazio per avermi
donato la tua purezza , la nostra gioiosa intimità, la commozione di quando ci
abbracciavamo, la bellezza del nostro rapporto maturato, migliorato sempre più
nel tempo, semplicemente perché ci condonavamo i rispettivi
difetti, a vicenda, per amore. Mi
manca la gara che entrambe facevamo perché l’altra stesse bene. Negli
anni abbiamo superato con pazienza gli ostacoli per arrivare ad amarci, sempre
più, sempre meglio. Una
parte di me si è spenta da quando sei andata, noi che eravamo una divisa in
due, mi sento la luna immobile che non si gira a ricevere il sole perché ha
pudore di mostrare l’ ombra. Grazie, soprattutto per le risate insieme” Ed
ecco che sfilano ricordi di filastrocche e canzoncine in dialetto, con le
quali carburavamo prima di giungere alla
“ridarella”, quella senza motivo, di cuore, con le lacrime agli occhi, felici
di fare le sceme . Il bello era che, quando la ridarella sembrava estinta, bastava
guardarsi negli occhi e si ricominciava. Ridevamo
di pancia per riconoscerci, senza parlare mi rispecchiavo nel suo sguardo e lei
nel mio. Me ne vado in auto ripetendo
scioglilingua, strofe divertenti di vecchie canzoncine che cantava nonna
Olimpia, parlando apparentemente da sola, fornita di auricolare invisibile e
finisco col ridere di cuore, con le lacrime agli occhi, facendo la scema.