sabato 25 ottobre 2014

Non finisce qui ... non finisce qui ...



     
                                                               
Vedo il mio viso allo specchio, smagrito, pallido, livido:mi stupisce vedermi così, pensavo di essere invincibile; si alternano sofferenza , rabbia impotente . Inno alla vita"

   Mi fisso intensamente, quasi volessi andare dietro il viso:lo sguardo e' la miscela degli sguardi dei miei genitori, come se il loro amore si fosse fuso per andarsene in giro nel mondo attraverso  me.    
      Canto a voce bassa una canzone antica per farmi compagnia, il suono vibra nel petto profondamente, amplifica il dolore , mi fa piangere.
   Seguo il percorso delle lacrime; delicati bacetti  si sommano lungo le guance, mi applico con attenzione a seguirne la pista diafana. Lacrime arrivano caute, in fondo alle guance, si sporgono pericolosamente, molleggiano un istante nel vuoto poi si schiantano sul bordo del lavandino.
   Il volo delle lacrime. Lo sfratto dalle orbite. La striscia di sale. Il rigurgito dell'occhio .Per distrarmi m’ impegno a osservare la tecnica del pianto con relativi sottotitoli, non il contenuto emotivo.
   Il dolore svanisce, per attimi, lascia un vuoto esagerato nel cuore, un buco di niente. Mi sto procurando intervalli di tempo di non-dolore (ne ho bisogno) per ritrovare il respiro nel basso ventre,quello profondo che calma.
Ritorna la valanga di meteoriti, fanno buchi invisibili nella testa, nel corpo. Siedo, smetto lo sciopero della memoria, mi piego in due. Esiste il luogo atemporale nel quale possa fuggire?  Prego che mi prenda l'amnesia totale spensierata senza meteoriti.
... Mi guardo intorno. La stanza da bagno è quella dell'infanzia. C'e' il vetro della mensola con l'angolo rotto, su cui poggiano la spazzola, il pettine. In un cantuccio, la vecchia lavatrice in disuso, bombata, rotondetta,col coperchio sopra, funge da recipiente per la biancheria sporca. Sopra ci sono i fumetti, vecchi "Topolino" letti e riletti, dimenticati da anni. La tenda della finestra, soffice aerea, svolazza incosciente. La fragilita' di oggi è stemperata da un mucchio di oggetti vecchi e demodé, testimoni dell'infanzia piena di giochi, cugini, zii, nonni, botte, allegria, lacrime, coccole, canzoni.  A Napoli i bambini sono più felici?  Si canta, si balla, si recita, si racconta, si tira fuori la rabbia, la gioia. Si è plateali, tanto la platea c'e': sono gli altri. A turno, si recita la propria vita o si è spettatori di quella altrui.
   Mi cade lo sguardo sui piedi: sono identici a quelli di mio padre. Di colpo ricordo: di là c'e' papà che muore.
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Mi rifugio nel ricordo degli anziani di famiglia; avessi assistito alla loro morte adesso, ne saprei di più ma fui risparmiata. Ripenso a loro con tenerezza, mi racconto storie, per dimenticare.                                                                          Penso agli occhi furbi, neri profondi, leggermente strabici di Nunziata, nonna paterna;denti e capelli radi, si tinge i pochi peli superstiti di castano rossiccio poi, civettuola, ride come una ragazza, facendo sobbalzare il ventre prominente e i seni grandi, gustati dalle bocche di ventiquattro bambini. Nunziata divide l'amore tra figli, nipoti, pronipoti, la folla di vecchie amiche sempre nella stessa casa, nel quartiere di Sant'Anna alle Paludi.
    Nonno Luigi se n'e' andato già, consumato dai piaceri della carne: la tavola il vino, le belle donne. Se fu maschilista, un padre- padrone, non lo seppero mai, ne’lui ne' la nonna.
    Racconta Nunziata:" Io il nonno non lo volevo, fu mammà che volle a tutti costi perché lui era benestante. Per farmi vedere dai giovanotti, siccome facevo la sarta, trovavo la scusa di fare le consegne  anche se non era vero, me ne andavo in giro con la scatola vuota! Lui, appena mi vedeva, mi veniva dietro, dicendo agli amici che io ero roba sua, poi mi picchiettava delicatamente le gambe col bastone  per farmi tornare a casa. Mammà mi disse: "Spusatillo ca vaie bbona". Così siamo usciti e, si sa, ci siamo dati nu' vasillo e ci simme azzeccati. Sposammo nel '28, nel '29 ebbi Maria, nel '30 Vicienzo e dopo il secondo figlio il nonno si guastò".
    Nonno Luigi non si aggiustò più, è morto soddisfatto, sazio e contento.
Ricordo l'uomo basso, tarchiato, uscire dal portone, vestito di bianco, col viso e il cranio pelato rosso fuoco,sotto il cappello a tesa larga col quale si sventolava per le caldane;  allungava davanti a se il bastone di bambù,  quasi a farsi spazio ed era elegante nonostante la corporatura tozza.
   Dopo le generose libagioni Luigi, lentamente, si recava all'ospedale Borgo Loreto; lì era sottoposto, dal personale amico, a copiosi salassi di sangue, per ridurre l'ipertensione (per poi ricominciare a mangiare).
  Trascorsa mezz'ora, tutti potevano vedere un vecchio arzillo tornare a casa, faccia rosea che roteava il bastoncino di bambù lentamente, pregustando futuri manicaretti.

 Olimpia, nonna materna, spesso raccontava la sua difficile vita, poiché, essendo nata nel 1893 aveva attraversato due guerre; sicuramente, la peggiore fu la seconda, quando, si ritrovò sola, madre di quattro femmine e due maschi, tutti dai vent'anni in giù. Nonno Gennaro fu spedito nei campi di lavoro in Germania, lei patì fame, freddo, nottate nei ricoveri per i bombardamenti, fuga da Napoli, mancanza di notizie del nonno, grande paura, responsabilità' inaudite.
 Perciò nonna soffriva di  frequenti episodi di pressione alta.    
   Era una vecchietta dolce, liscia, leggera, piccolina, con un vistoso dorso curvo ( a causa  del peso della vita?); ricordo che si  lavava molto , chiedendomi di  insaponarle la schiena. Profumava di pulito, di brillantina Linetti che metteva sui capelli per tenerli in ordine, componeva le mie trecce scure con mani gentili facendomi  addormentare sulle sue ginocchia, raccontava fantastiche storie di "monacielli" e "belle mbriane" (folletti e fate).
    Quando le montava la marea sanguigna, l'intera famiglia si mobilitava; mio padre, genero preferito, correva dal barbiere a comprare le "sanguette" (sanguisughe) che facevano sinuoso ingresso in casa rinchiuse nel barattolo di vetro.
    Nonna sedeva con lo scialletto di lana traforato sulle spalle, i piedi poggiati ai lati del braciere, i capelli tirati indietro da beccucci metallici, figli e nipoti costituivano gli elementi di un cerchio magico, ma nessuno lo sapeva. Io, bambina, mi aggiravo un po' preoccupata, disgustata dai viscidi animaletti eppure curiosa di vedere come sarebbe andata a finire.    
Allora la morte non esisteva, era un gioco. 
    Si accostavano "le sanguette" alla zona dietro le orecchie di nonna, nel punto più' vicino ai trombi cerebrali; le mollicce erano sostenute fin quando non avessero morso la pelle, rimanendo poi attaccate con i  poderosi denti.
   Pazientemente  si aspettava, braccia conserte, che gli animaletti  aspirassero golosamente il sangue superfluo; il rito si consumava con lentezza, tra scarne battute degli adulti tesi.  Quelli erano gli unici momenti di vero silenzio che io rammenti a proposito della mia teatrale famiglia.
  Intanto invisibili, mute preghiere salivano al cielo affinché nonna ci fosse lasciata ancora un po'.
 Eravamo tutti con le orecchie drizzate, ad ascoltare il respiro affannoso, soglia percettibile tra la vita e la morte: un respiro prima nonna se ne andava, un respiro dopo era  con noi.
    Un'inspirazione regolare... due... tre... quattro: ancora una volta nel cerchio magico, l’attenzione, il tempo dedicato convincevano nonna a restare .
    Le "sanguette", orecchini di carne amaranto, ormai facevano capolino al di sotto dei lobi delle orecchie, sazie e contente;  si sarebbero presto staccate, non riuscendo a sostenere il  peso della propria ingordigia.
   Gli adulti, pronti, mettevano, sotto di esse, un catino pieno d'acqua, nel quale le  ignare si tuffavano, pensando di tornare a casa.
Ed io, quanta gratitudine provavo per loro! Fosse stato per me, avrei allestito un acquario per tutte le sanguisughe che avevano salvato nonna!
    La stanza si animava di voci, i nostri cuori leggeri si espandevano, gli adulti si contendevano le forbici per tagliare le salvatrici che,pienotte, scivolavano nell'acqua, palline color rosso sangue aggrumito.     
     Tagliarle a metà, verificare tra frammenti di corpo, scie rossastre di varie sfumature, che il sangue in eccesso di nonna era fuori di lei, rappresentava la verifica della riacquistata salute, l'esorcismo della malattia.
    Stupita, osservavo i frammenti vivacissimi delle sanguisughe ormai divise, dibattersi nella vana ricerca del riassemblaggio.
    L'umore ritornava gioioso, solare, i guai erano istantaneamente cancellati.
Nonna Olimpia dimenticava, in quei momenti di scampato pericolo, perfino di essere separata in casa.
    Riammetteva al suo cospetto nonno Gennaro, reo, nonostante la prigionia in Germania, di aver accettato le avances di una tedesca.
    Uomo alto, un vero bel fusto, aveva affascinato la donna;uno zio se l'era andato a riprendere dalla Germania dopo la fine della prigionia, però,  benchè  nonna  fosse contenta di rivedere nonno sano e salvo, lo aveva sfrattato dalla camera da letto.
      Nonna Olimpia cantava.
Calzava il cappello, impugnava il bastoncino di bambù intonando, tra le altre, una vecchia "macchietta" da avanspettacolo intitolata "Nino Zafferino", satura di pepati doppi sensi che ormai, apparivano evidenti anche a noi bambini.
    La famiglia, aveva un mandolino a disposizione,suonato da uno zio, ma tutti davano il proprio contributo con rumoroso sottofondo strumentale a base di canto, versi, frasi inventate, percussioni ritmate di pentole, coperchi, grattugie, bicchieri.
   In ordine sparso si cantava, si ballava, si pestavano i piedi, si battevano  le mani;era il blues di ringraziamento per la grazia ricevuta, la danza rituale della nostra famiglia.
Fugata l'angoscia, qualcuno prendeva il catino e offriva il sangue di nonna a divinità' pagane, perdute nella memoria delle nostre origini greche.
   Danzando e cantando il liquido veniva portato in bagno e versato; in che modo le  divinità' lo attingessero dalle profondità' del vater, rimarrà' un mistero.
Lo sciacquone siglava vorticosamente la fine del rito.
    Nonna spiegava la voce nel tremulo acuto senile fino a quando qualcuno esclamava: "Mo' basta! nun 'a facite stancà troppo 'a nonna, ca si no' a chella le saglie n'ata vota 'a pressione!!"
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Coma per ictus, ovvero: papà' è a cavalcioni sul confine vita-morte.Respira a fatica, attaccato ai tubicini della bombola di ossigeno, il corpo è intatto ma il cervello è un grumo di sangue, poltiglia di vasi deflagrati.
    Gli tocco i piedi; la natura è miracolosa, riproduce e perpetua la varietà' della specie, assemblando con fantasia o con assoluta fedeltà'; se i piedi di papà' smetteranno di andare, lo farò io con i "nostri" piedi gemelli.
    Ictus ovvero cervello scoppiato:quante preoccupazioni può contenere il cervello prima che esploda? Quanta paura può scivolare nei circuiti prima che essi si sfianchino per il dolore?
    Dov'e' mio padre? Qui c'e' il corpo che è tutto un respiro, sibilo-ponte con l'aldiquà, unico segno di vita che contrasta con la fissità' dello sguardo.
    Dov'e' il suo modo di scherzare, di sdrammatizzare, di accogliere la gente con il suo: "Non è niente, a tutto c'e' rimedio”.
    Dove sono la presenza costante, l'attenzione, il tempo che mi regalò?
Dov'e' la fragilità di fronte ai prepotenti, agli irascibili, ai disattenti?
    Dov'e' il suo amore? che mi ha sorretto come un cuscino di fiori profumati, anche a distanza di chilometri.
  L'essenza fragrante di mio padre è stata più concreta, operante e salda di questo corpo ansimante.
 Non la trovo più, sono smarrita … poi, provo a percepirla e, rivive, ricompare.
Tiro fuori il libro delle preghiere, siedo accanto ai suoi-miei piedi.
    Mi attraversa un pensiero giocoso che non potrei avere in tutto questo dolore se non me lo inviasse mio padre:che tra un po' smetterà di ansimare, gli si distenderà il volto in un sorriso da furbetto e dirà: "V'aggio fatto scemi! Sto pazzianno!”
    Aspetto che lo faccia oppure sta giocando in un'altra dimensione, dove si può scherzare anche con la morte.
    Prego, gli bagno il palato disseccato dall'ossigeno, cullo questo mio piccolo bimbo.
Rivedo la sua solitudine, confinato davanti al televisore, tramutato in figura sbiadita di pensionato senza futuro, condannato all'infamante premorte televisiva.
    Papà era diventato triste, i sorrisi erano semplici stirature delle labbra, stava recitando.
Prima che entrasse in coma, feci un sogno.Seppi con certezza che qualcuno sarebbe morto, ma al risveglio non volli ricordare chi; dall'imponenza del pianto, dall'entità della disperazione senza spiragli, compresi che qualcosa di terribile sarebbe successo, tutte le fibre del mio essere seppero, la mente rimase chiusa.
     Avevo sognato una mela rossa, lucida, bellissima all'apparenza; aprendola scoprivo che era marcia.
Irrimediabilmente.
     La mela era la testa di mio padre.

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Ricordo il momento preciso in cui la mia consapevolezza bambina riconobbe e accettò l'amore di papà.
    Avevo poco più di quattro anni e fino allora lui era stato l'uomo sorridente, vitale che tornava dal lavoro a sera. Faceva il pediluvio nell'acqua raffreddata della pasta lessa, giocava con me e mia sorella fino a "Carosello”, la domenica ci portava sul lungomare di Mergellina, alla villa comunale a passeggiare, correre, mangiare la "graffa", il gelato.
I miei genitori avevano entrambi vent’anni però papà era più giocherellone; le mamme vietano più cose: non ti devi sporcare, non devi sudare, non devi buttarti per terra ,lui, invece, era dalla parte delle bambine.
Fin da piccolissime ci trainava in alto mare ficcate nel salvagente a ciambella mentre mamma restava a guardare dalla riva torcendosi le mani, come le mogli dei pescatori.
    Bastava una risata di mio padre e i problemi svanivano, lui era l'antidoto all'ansia di mia madre.
 Fino a quattro anni facemmo gineceo: mamma, nonna e nipotine,poi come un colpo di fulmine esplose l'ammirazione consapevole per mio padre quando.......
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Millenovecentosessanta, terremoto a Napoli.
Sottili crepe s’irradiano nei muri della casa al quarto piano, calcinacci modesti si staccano infrangendosi al suolo come statuine del presepe.
    Urla, voci di donne, sembrano finte tanto sono intense, parrebbe di essere a teatro, se non fosse che si  sta sbriciolando la zona antica di Napoli, la più fragile.
    Abitiamo nel cuore della città, la prima scossa ci fa barcollare come in un tram; anche da bambina, ritrovo la parte di me che siede in prima fila e osserva: sono in pericolo eppure mi guardo essere in pericolo,tuttora è così.
   Mi osservo scappare, urlare, disperarmi ma poi esco spontaneamente dal ruolo unico di attrice e sono meno coinvolta. Non lo decido io, succede e basta.
     Che si fa durante un terremoto? All'inizio ci si spaventa poi si scappa, prima però si raccolgono oggetti utili e di valore.
    Mamma non è stata zitta un istante, poderosa urlatrice affetta da panico costante; si affanna a rifornire la squadra di beni di primaria necessità cioè cibo, coperte, medicine.
    Papà la aiuta poi afferra il fazzolettone pieno di soldi e gioielli di famiglia che è sotto il materasso.
Mia sorella, più grande si occupa delle sue cose.
    Siamo pronti, non ci resta che fuggire dalla seconda probabile scossa di assestamento.
Io ho corso, urlato quanto basta, non so cosa portare con me, nel dubbio afferro il coperchio di una pentola di alluminio, mi ci aggrappo, ma io, io che porto via con me, che prendo?
    Mi volto e... vedo papà, gli volo tra le braccia aperte, tuffo il viso sul collo abbronzato: sono la figlia piccola, tocca a me essere portata in braccio.
  Le mani calde, forti mi avvolgono nel cerchio fatato, il petto peloso è il cuscinetto delizioso dall'odore noto.
    Penso: "Io prendo papà".
 Così i calcinacci diventano ovatta, cotone leggero, le scale percorse tra folla di donne urlanti coi figli in braccio sono montagne russe tutte in discesa, la gente grida di allegria.
    Quanto fu divertente il terremoto!
Papà ci rassicurò, scherzò, prese in giro tutti quando dormimmo, per diverse notti nel parco di un contiguo ente assistenziario.
     Erigemmo tende , dormendo sotto le stelle, temperatura estiva, tra monumentali palme, alberi e kenzie.
    Fu il mio primo campeggio, guardando in alto vedevo i palazzoni del quartiere.
Durante il giorno noi bambini giocavano nel verde; a pranzo nonno Luigi preparava monumentali pagnottelle con mortadella che distribuiva equamente.
    Ricordo la dolce stanchezza serale prima di raggiungere la tenda; nel buio gli adulti, bisbigliando le loro preoccupazioni, favorivano il  sonno dei piccoli.
   In seguito, tornati nell'appartamento, noi bambine, avremmo chiesto quand'e' che avrebbero" rifatto"il terremoto.
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Che cosa vuole mio padre? Nell’aria veleggia il suo desiderio per le abitudini, l'attaccamento alle persone, ai vecchi mobili, ma anche la paura dell'ignoto.
    Il medico scuote la testa mentre gli solleva la palpebra e incontra l'occhio sbarrato come quello di un pesce morto.
  Intanto rassicuro mio padre con la preghiera e così  rigenero anche me; se qualcuno si dispera troppo , comincio a pregare e quello smette.
   Chi mi ha insegnato tutto ciò? Non lo so, sento di comportarmi così, mi sembra di accogliere notizie dall'etere come fossi una radiolina: più prego, più affino il sentire.
   Non ho mai guardato la morte in faccia o ne ho riso; il trapasso di nonna Olimpia fu la sparizione magica del suo corpo, anche allora non mi è mai sembrata del tutto assente.
   Mi lasciò un soffio, l'atmosfera dei suoi racconti, il  tocco garbato sulle trecce, le parole in disuso del dialetto antico.
Non fu permesso ai bambini, ai giovani guardare il cadavere di nonna ed io persi l'occasione di vivere la morte di qualcuno che amavo, così il coma di papà mi ha preso in pieno, come fossi investita da un ‘auto.
  Ho paura di questo nulla, di questo limbo.
 Poi dalla preghiera,sgorga la speranza, smuove l'energia negativa, traccia il ponte d'amore tra qui e l'aldilà: dovunque sia, comunque sia, so che c'e'.
    Improvvisamente abbraccio presenze di luce, pioggia nutriente contro conoscenze razionali, sento mio padre vicino, di nuovo.
    Non è ancora altrove, e se piango, non è perché è lontano ma perché soffre. Chiedo mentalmente: "Papà, che vuoi?". L’attesa è insopportabile.
   Registro le voci di quelli che vengono a fargli visita: sono tantissimi, corteo variegato di fratelli, sorelle, nipoti, cugini, conoscenti, amici, vicini di casa, che siedono gentilmente per ore.
   Una sorella di papà incinta sviene, il fratello poliomielitico chiede continuamente, con garbo:"Vincenzo. per favore apri gli occhi",mia cugina Dora, infermiera, dorme ai piedi del letto, nonna Nunziata vuole” fare la notte” nonostante l'età.
   Mia madre, mia sorella ed io siamo abbracciate, consolate, rifocillate in cucina dal codazzo di parenti, amiche che preparano da mangiare per noi e forniscono caffè, tanto caffè.                                                                   Sopraggiunge una conoscente che, quando porge la mano, ti rifila un oggetto talmente inerte, riluttante nella stretta, che ti sembra di toccare un polipo già lesso.                                                                                           Sorrido all'idea che papà l'avesse soprannominata "Manomoscia".
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Oggi papà ha scacciato una mosca, stiracchiato un piede, siamo felici come quando un bambino muove il suo primo incerto passo incontro alla vita;sul volto l'espressione e' passata dalla sofferenza al fastidio.
   La mosca ci ha dato molta gioia.
Il medico  ha detto: "Ci vorrebbe un miracolo"  poi ha aggiunto:”Potrebbe farcela ma rimarrebbe semiparalizzato, con l'uso parziale della parola.”
   Mi chiedo quanto allontani dai miracoli il parere di un medico:dire questo davanti a mio padre. Sembra che lui non senta eppure credo che abbia capito lo stesso e sia scivolato sensibilmente dall'altra parte, spaventato da un probabile corpo malato, dipendente dagli altri.
    Lui non ha mai pesato su nessuno di noi.

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Sera dell’1 novembre '92. Aria mite come fosse primavera, la speranza strugge, immobilizza il tempo.
   La tenda solletica una zia distesa sul materasso a terra; la cugina Dora sonnecchia in poltrona, un'altra zia è rannicchiata sul letto alla mia sinistra, a destra c'e' mio padre.
   Seduta, contro la testiera ascolto il concertino di respiri provenienti dai parenti, mi godo l’ intimità notturna, prendo la mano caldissima di mio padre. Adesso ha la febbre ma è sempre stata calda, morbida di peli, abbronzata; gli afferro qualche peletto, intreccio le mie dita alle sue, sento una leggera stretta, incrocio le gambe.
    Aspetto, ascolto la notte.
Non finisce qui. La morte, quella del corpo, gravita freddamente intorno. L'ultima morte.
   Rivivo le tante piccole morti della vita, morti preludi a rinascite, distacchi preludi a fusioni; sono morte dentro parti invecchiate di me che hanno concimato nuova vita producendo trasformazioni insospettate.
     Non finisce qui. Non finisce qui. Non finisce qui. La preghiera diventa mantra.
Non so niente della morte, quasi niente della vita.                                             A volte ho la sensazione di camminare in bilico su una lama,allora invoco Dio perché metta al lavoro il santo comitato di valutazione e mi dica dandomi una pacca sulla spalla:"Brava ragazza, stai facendo bene, 7+!"
    Non finisce qui. Non finisce qui. Non finisce qui....
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Mi addormento seduta, stranamente, di solito non ci riesco.
   La presenza di mio padre è tutta nella mano che stringo, m’infonde grande vitalità.
Sogno? Non so. Sto dormendo ma sono anche davanti al letto a vedermi dormire; sono andata da un'altra parte,dove c'e' papà vivo e vegeto, sguardo scintillante, che  sprigiona una carica entusiasmante.
    Mi contagia, sono già d'accordo con quanto mi farà vedere e dirà, l'eccitazione mi pervade come quando partivamo di domenica per il mare.
     Ci troviamo nella campagna verde squillante, pulsante di un colore irreale, lui è sereno, consapevole,  regale, non rispecchia il pensionato opaco degli ultimi anni.
    Mi fissa: è bello ritrovare lo sguardo della sua giovinezza. Mi dice: "Vieni".
Ci teniamo per mano, gli leggo negli occhi  l’impazienza  di uno che sta per farmi una sorpresa.
   Ci stacchiamo dal suolo, sorvoliamo il verde abbacinante delle colline piene di curve, puro sfarzo vegetale:non ricordo di aver visto niente di simile nella realtà, eppure ho viaggiato tanto.
   Siamo allegri, vediamo dall'alto una piccola trattoria accogliente, la mia fiducia è totale perché mio padre mi tiene per mano.
    "Come posso tornare da voi con quello che ho trovato qui? Cerca di capire, qui c'e' pace" mi dice.
Con lo sguardo gli comunico che comprendo, lo lascio andare.
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Mi sveglio. E' stato un sogno bellissimo. Il suo corpo morirà.
   Non finisce qui. Non finisce qui...
Nel dormiveglia la frase suona ancor più vera.
 Guardo il viso di papà stravolto nello sforzo di respirare, le palpebre serrate: la realtà è questa? O è una delle facce? Cos'e vero? Il volo, il respiro affannoso, la serenità, il dolore, il suo corpo, il mio sogno?                                                                                                                  La verità è la somma di tutto quanto.
La mano di papà è la stessa del sogno, m’infonde coraggio.
Il suo corpo morirà, cannucce di ossigeno gelato gli stanno disseccando il palato, ha le croste sulle labbra e io non posso fare niente; mi arrabbio per questo.
   Vorrei non soffrisse così. Il suo corpo morirà.
La frase vaga animata di vita propria, i medici l'hanno detto io non ci volevo credere, dopo il sogno ne sono certa.
   Eppure...non voglio arrendermi: accendo il registratore,davanti al quale ho fatto esprimere messaggi d’amore per mio padre da  tutti noi, parenti, amici,  conoscenti, aggancio  l'auricolare all’orecchio di papà, perché lui ascolti ancora lo spot pubblicitario di questa vita.
   Per tre volte l'auricolare si stacca, cade sul cuscino.                       

Avanza il nuovo giorno con  speranze, interrogativi; racconto il sogno a metà evitando di parlare dei contenuti, mi soffermo solo a descrivere il magnifico aspetto di papà,mentre il medico compie la visita, scuotendo il capo.
Ripensando a mio padre riconosco i segni clinici della depressione; neanche lui se ne accorse ma, come sempre, non avrebbe chiesto aiuto:considerava la propria sofferenza meno importante di quella altrui.                                                                                                                      A noi ha fatto comodo pensare che il suo dare fosse inesauribile?Sì.
Con nostalgia ripenso ai colori vividi del sogno, alla luce, al turgore della terra sorvolata; la leggerezza che ho provato mi collega a un’esperienza ricorrente dell'infanzia quando,prima di addormentarmi, dietro agli occhi chiusi,si attuava un caotico conto alla rovescia con grossi numeri di gommapiuma; poi i polpastrelli delle dita diventavano enormi, leggerissimi come palloncini ed io, attaccata a essi, viaggiavo per mari e monti.                                                                    
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Mio padre ansima di più, la temperatura è salita ancora.
L'ansia rimbalza da uno sguardo all'altro; anche se ho raccontato mezzo sogno, tutti abbiamo capito.
    Non si può fare altro che aspettare.
Prego con fervore proporzionale all'ansimare, sembra che qualcosa stia per spezzarsi. E poi…
  Pochi istanti,il respiro rauco non c’è più , rivedo un volto sereno, disteso: 2 novembre ore 16,00 dell'anno 1992, che classe andarsene nel giorno dei morti.
 Si è placata l’onda del respiro, lo yo-yo che faceva di questo corpo mio padre.
Non è mai stato mio, l'idea del possesso fa soffrire di più: d’ora in poi sarà Vincenzo, non voglio sentirmi amputata di lui che è nel mio sguardo, nel cuore, nei piedi.
 Piango lacrime brucianti,monta la rabbia che graffia, affiora un urlo (che non lancerò); sussurro preghiere- mantra, ninnananna per acquietare lui, me.
    Poi m’invade la profonda comprensione di quanto accade.  Com'e' possibile? Sto vivendo qualcosa di terribile e capisco. Sotto pelle formicola l'orgoglio di avere avuto Vincenzo come padre, la gratitudine per il suo passaggio nella mia vita e penso:”Che bel regalo mi è stato fatto!”   
   Gli taglio una ciocca di capelli piccolina dalla nuca, lo bacio sulla fronte poi lo vestiamo con un bel pigiama rosa, gli mettiamo la coroncina col crocefisso tra le mani incrociate.
   Sembra uno che dorme! manca solo il caotico russare che allietava le notti in cui facevo brutti sogni: socchiudevo la porta della cameretta,drizzavo le orecchie ,mi lasciavo trasportare nel sonno, felice,confortata dal gran fracasso che faceva.                                                                                                Mio padre mi ha riconosciuta, facendomi il grande onore di portarmi con se nei luoghi incantati visitati da  coloro che si trovano in coma;ha scelto me,   da viva, come turista "straordinaria"di quell'altra dimensione.                                                                                                                                               ” Grazzie a tte, ammore mio                         

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E' notte. Lasciamo solo Vincenzo per dare la possibilità all'angelo custode di venire a prenderselo.
    Oggi pomeriggio mi sono fermata sul pianerottolo con la bombola dell'ossigeno da riportare in farmacia, ho infilato le cannucce nel naso,  ho aperto la valvola, respirato l'aria gelida sparata su: pochi istanti e avevo le mucose asciutte, insensibili, fredde. 
Noi tre andiamo a dormire in un altro letto matrimoniale, una volta lì, diventiamo un solo corpo , abbiamo bisogno di stare vicine per colmare il vuoto chilometrico dell'assenza. Tra lacrime e abbracci ci addormentiamo, ma prima, mamma e mia sorella decidono, che per il funerale, indosseranno gli stessi abiti di questi giorni.
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Sogno. Io e mia sorella siamo in lacrime in una casa nella foresta tropicale, come sempre di un verde incredibile.
    Mia sorella è molto triste per la perdita, non vuole uscire, bussano, apro, c'e' Vincenzo: è allegro, ben vestito, in forma, intenso nel colorito quanto il paesaggio.
    Ci guarda entrambe stupito: "Non voglio vedervi così, domani sarà la mia festa, vestitevi bene".
Poi mi dice  puntandomi l'indice:"Tu! Mettiti il vestito rosso corallo con le bretelline a catenella e gli orecchini dello stesso colore: mi piacciono assai".
   Al risveglio sono perplessa: il vestito descritto è estivo, scollato, non potrei comunque usare i voluminosi cerchi di legno colorato a un funerale, però ci vestiamo elegantissime come ci ha chiesto di fare.
 E tutto quanto indosso sotto l’abito è rigorosamente color rosso corallo.