Spesso incontro donne che hanno frequentato Olimpia Center, primo
centro sportivo polivalente aperto a Gioia del Colle da me e mio marito e mi
abbracciano, sorridono, insieme
ricordiamo un venticinquennio di attività sportiva. Di qualcuna non azzecco
nome e cognome ma ripesco nella memoria la persona che corre, salta, in un
certo modo che era il suo, personale e unico. Quanta vita nella mia vita: a
scuola ho accudito centinaia di bambini
e altrettante donne in palestra. Con mio marito, freschi freschi di
I.S.E.F. di Napoli (ora facoltà di scienze motorie), anni ’80, praticamente ventenni, abbiamo dato
vita al centro sportivo , io insegnante di fitness e lui di judo. In una città contadina
che cresceva nel terziario, in cui le donne sgobbavano come matte in casa, con
i figli e qualcuna coltivava pure la terra, la mia persona e la palestra,
diventarono motivo e luogo di evoluzione personale, di benessere e
spensieratezza. Laddove circolava una modalità comunicativa rude ed essenziale,
la mia competente solarità risultò alternativa. Le ragazze si aggregavano
volentieri alle attività in cui ci si esibiva (balletti, saggi, marcelonghe
ecc) e le “signore” venivano da me “per motivi di salute”; se avessero
dichiarato di farlo per diletto forse non avrebbero superato i sensi di colpa
né convinto i rispettivi coniugi. Quante depressioni e problemi familiari si sono alleggeriti con l’attività fisica, le risate, la musica, le battute umoristiche, le
danze popolari di gruppo, gli esercizi a coppie,le attività di aggregazione
esterne, tipo andare a fare la pizza o ritrovarsi a casa mia a ridere e
scherzare. Quante confidenze mi sono state fatte e, nonostante fossi molto
giovane, si chiedeva consigli a me, ventenne , ritrovatami, per amore, in un
clima mentale diverso dalla mia Napoli (Napoli
Napoli? Sì, stazione centrale), lontana dalla famiglia, col lavoro faticoso e
intenso di insegnante a scuola e in palestra, nonché impegnata nel duplice neo-ruolo di moglie e
casalinga. Dopo venticinque anni di
attività in palestra, sono scesa dalla giostra, il cancro ha detto “stop” ma
Olimpia Center continua imperterrita con il judo nel palazzetto di Gioia del
Colle.
Ebbene, sì, sono una “zenapoletan” in
trasferta; mi sono inventata il neologismo per indicare un modo di essere,
quello mio e di tanti miei concittadini. Uno “zenapoletan” nel bel mezzo delle
difficoltà, delle fatiche, dei cambiamenti pazienta e spera; s’intenerisce
quando incontra persone bisognose di aiuto, non le giudica o sfrutta né tenta
di dominarle; non vuole sapere i fatti degli altri e se glieli raccontano,
tenta sempre di mettere la buona parola. Lo “zenapoletan” è generoso,
altruista, “tiene maniera” (è gentile), non diventa arrogante appena raggiunge
un ruolo di rilievo, è affetto da cronico senso dell’umorismo, scivola fuori
dalle situazioni quando il suo compito si è esaurito, dimentica le offese ripartendo ogni volta
da zero (e quindi lo si può offendere di nuovo ). Lo “zenapoletan” vive in parziale
cattività in qualsiasi altro luogo che non sia Napoli e lontano da altri “zenapoletans”;
dentro gli serpeggia il continuo struggimento di non poter ascoltare la
splendida lingua napoletana e così, per sentirsi a casa, canta canzoni
classiche napoletane e guarda commedie di De Filippo. Chiunque abbia le suddette caratteristiche è
“zenapoletan”anche se non è nato a Napoli; il fatto è che il prototipo
originale proviene dalla mia città nella quale se ne individua la matrice più
numerosa; in una città complicata come Napoli lo zen è diventato genetico, unica risposta utile alla sopravvivenza.
Come dice
Suzuki, lo zen è “al di là del mondo degli opposti, fatto di distinzioni intellettuali … il mondo
spirituale é un mondo di non-distinzione che comporta il raggiungimento di un
punto di vista assoluto” e cioè: “’O CORE”!!