Napoli, anni ’60, famiglia
numerosa riunita a casa di nonna Olimpia. Non ricordo un componente del gruppo
familiare che non cantasse. Nonna interpreta “le macchiette”, brani comici da
avanspettacolo: ecco, prende il bastone, indossa un cappello Borsalino (si
traveste da uomo), zio Rosario pizzica il mandolino, emergono versi appuntiti o
grevi, rumori cadenzati, fischi, battute di mani, si gioca a percuotere oggetti.
La canzone “Nino Zafferino” è la stessa, l’accompagnamento vocale e
“strumentale” è ogni volta inedito.
Anno 2011, caldo settembre, conservatorio
di Monopoli, prima prova dello spettacolo di canto gregoriano e musica elettronica
contemporanea su progetto di Gianni Lenoci; è una bella idea, mi attrae e
diverte. Cerco nei ricordi tracce di musica contemporanea, ma sono esili; mi
nutro di musica etnica, new age, mantra, canzoni napoletane classiche, ninne
nanne. Per “costituzione” preferisco l’armonia, amo l’ascolto e il canto di
suoni noti; a tratti scovo affinità tra canzoni classiche napoletane e canto
gregoriano. Sperimentare un solo aspetto di un intero non paga: ad un certo
punto sei costretto a incontrare il suo
opposto, devi destrutturare, tuffandoti
nel caos e, col materiale riciclato, inventi nuove forme ; oggi resetto qualsiasi pre-giudizio musicale, mi
offro , neutrale, curiosa, all’esperienza qui presente.
Tasti percossi e corde di
pianoforte solleticate ( chi l’ha detto che il piano si suona solo dai tasti?);
le dita di Gianni passeggiano su e giù per la tastiera ripetendo una cantilena,
tenue ossatura (ma non sempre) per sorreggere lo stridore degli strumenti a fiato.
Talvolta i musicisti respirano appena negli strumenti, poi ci urlano dentro impetuosamente, con affanno si inseguono l’un l’altro mentre
il batterista spazzola e fa vibrare piatti, piattini e una grande lamiera rettangolare bruna ;ascolto
il ronzio di sottofondo e decido che è il rumore di un phon. Questa musica imprendibile
melodicamente, asincrona, non rassicura, non fa tamburellare con le dita né
battere i piedi a ritmo; viene voglia di arrotolarsi con il corpo intorno ai
suoni, come un bruco, di graffiare il muro con le unghie: eppure la sento parte
di me; mi lascio percorrere, incontro zone d’ombra, me le guardo. Non ho
riferimenti né certezze se non le pause ; rivivo l’effetto “scavo” dei mantra
tibetani che echeggiano nel Vuoto, dopo averlo creato. Poi tocca a noi coriste,
con il delicato latino del gregoriano, inscritto nel DNA,riportare tutti
nel grembo, ricomporre, armonizzare, ricucire, abbellire, risanare perché la
musica contemporanea torni a rimescolare , a rompere gli schemi. Nella fase di
vita in cui scavalco forme fisse come un’ostacolista, comprendo perché sono qui a cantare: musica elettronica
contemporanea (yang) e canto gregoriano (yin) si completano nella diversità,
generando un intero, il cerchio
chiaroscuro perfetto. Intravedo il sentiero di maturazione artistico/spirituale
esperito dai musicisti, avendo percorso inizialmente note “note” e poi avendo
fatto a pezzi qualsiasi schema ordinato e precisino. Il prodotto musicale di
oggi è la forma nuova .
L’augurio è che ognuno di noi
possa trasmutarsi in silenzio, dentro e fuori, nella musica e nella vita, nella
mente e nel cuore, nell’attesa di un
altro big-bang. Così, durante l’ “Ode”, produco la mia generosa dose di bagarre
vocale, contenta di rompere anch’io un po’… gli schemi. Scendo temporaneamente dall’Olimpo
armonioso, ordinato, struggente delle note gregoriane e me ne vado fuori dal
tempo, in meditazione; torno a casa di nonna Olimpia, quando ad occhi chiusi
emettevo con passione e libertà versi, vocalizzi, rumori, risate, lamenti,
suoni, tutti miei.
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